Sono contenta che vi piaccia.
Eccone un'altra puntata (poi, se lo trovo tutto, ve lo posto):
Mio padre non sapeva il greco, ma era forte in latino e approfittava di ogni momento libero per insegnarmelo. Avevo appena nove anni quando
la mia cara madre morí; fu una perdita irreparabile e certo la piú grande disgrazia che potesse colpire me e i miei sei fratelli e sorelle.
La morte di mia madre fu accompagnata da un altro grave caso disgraziato in seguito al quale tutti i conoscenti ci voltarono improvvisamente le spalle e interruppero i rapporti con noi. Degli altri non mi rammaricai troppo, ma
l’infelicità di non vedere piú la famiglia Meincke, di essere del tutto allontanato da Minna, di non doverla piú rivedere, fu un dolore mille volte piú grave della morte di mia madre, che finii col dimenticare tanto ero travolto dall’afflizione per la perdita di Minna. Per ore e ore, inondato di lacrime, stavo ogni giorno da solo davanti al ritratto di Olgartha von Schröder e pensavo pieno di tristezza ai giorni felici che avevo vissuto in compagnia di Minna. Tutto l’avvenire mi appariva cupo e tenebroso; per un certo tempo tutte le meraviglie misteriose di Ankershagen e persino Troia perdettero per me tutto il loro fascino.
Mio padre, al quale non era sfuggita la mia profonda prostrazione, mi mandò per due anni da suo fratello, il pastore Friedrich Schliemann, che curava la parrocchia del villaggio di Kalkhorst nel Mecklemburgo. Qui mi toccò per un anno la fortuna di avere per insegnante il candidato Carl Andress di Neustrelitz; sotto la guida di questo eccellente filologo feci progressi cosí notevoli che a Natale del 1832 potei già offrire in dono a mio padre un componimento latino, sia pure poco corretto, sui fatti principali della guerra troiana e sulle avventure di Odisseo e di Agamennone.
All’età di undici anni entrai nel ginnasio di Neustrelitz, dove fui ammesso alla terza. Ma proprio in quel tempo la mia famiglia fu colpita da una gravissima disgrazia, e siccome temevo che i mezzi di mio padre non sarebbero bastati per mantenermi parecchi anni al ginnasio e poi all’università,
lasciai il ginnasio, dopo soli tre mesi, per passare alla scuola professionale, dove fui subito ammesso alla seconda classe.
Promosso in prima a Pasqua del 1835,
lasciai l’istituto nella primavera del 1836, a quattordici anni, per prendere servizio come garzone nella piccola drogheria di Ernst Ludwig Holtz, nella cittadina di Fürstenberg nel MecklemburgoStrelitz.
Qualche giorno prima di partire da Neustrelitz, il venerdí santo del 1836, a casa del musicista di corte C. E. Laue
incontrai per caso Minna Meincke, che non avevo piú visto da oltre cinque anni. Non dimenticherò mai questo nostro incontro, che doveva essere l’ultimo.
Essa aveva quattordici anni ed era molto cresciuta dall’ultima volta che l’avevo vista. Portava un semplice vestito nero, e proprio la semplicità del suo abbigliamento sembrava rendere piú affascinante la sua bellezza. Quando ci guardammo negli occhi scoppiammo in lacrime e ci gettammo senza parole l’uno nelle braccia dell’altra. Cercammo piú volte di parlarci, ma eravamo troppo commossi: non riuscimmo a dire una parola. Subito dopo entrarono nella stanza i genitori di Minna e dovemmo separarci; per molto tempo non riuscii a riprendermi dalla commozione.
Ora ero sicuro che Minna mi amava ancora, e questo pensiero infiammava la mia ambizione: da quel momento sentii in me un’energia sconfinata e la ferma fiducia che lavorando con alacrità infaticabile mi sarei fatto strada nel mondo e mi sarei dimostrato degno di Minna. Pregavo soltanto Dio che lei non si sposasse prima che io mi fossi conquistato una posizione indipendente.
Per cinque anni e mezzo servii nella piccola drogheria di Fürstenberg: il primo anno col signor Holtz e poi col suo successore, l’ottimo signor Theodor Hückstädt. Nel mio lavoro dovevo vendere al dettaglio aringhe, burro, acquavite di patate, latte, sale, caffè, zucchero, olio, candele ecc., macinare le patate per la distilleria, spazzare la bottega e compiere altri servizi simili.
Il nostro negozio era cosí insignificante che tutte le nostre vendite di un anno non ammontavano a 3000 talleri; ci sembrava una fortuna eccezionale se nel corso di una giornata vendevamo merci per 10 o 15 talleri. Naturalmente qui venivo a contatto con i ceti piú bassi della società. Dalle cinque del mattino fino alle undici di sera ero tanto occupato che non mi restava un minuto libero per studiare. Per di piú
dimenticavo rapidamente il poco che avevo imparato da bambino, ma non perdevo l’amore per la scienza – non lo perdetti mai –, e cosí
non potrò dimenticare finché vivo quella sera che entrò nel negozio un mugnaio ubriaco, Hermann Niederhöffer.
Era figlio di un pastore protestante di Röbel (Mecklemburgo) e aveva quasi compiuto gli studi al ginnasio di Neuruppin quando fu espulso dalla scuola per cattiva condotta. Il padre lo affidò come apprendista al mugnaio Dettmann di Güstrow; restato qui per due anni, egli andava poi girando come garzone mugnaio. Scontento della sua sorte, purtroppo il giovane si era dato presto al bere, ma non aveva dimenticato il suo Omero; e quella sera ci recitò non meno di cento versi di questo poeta, scandendoli con pieno pathos.
Sebbene non capissi una parola, quella lingua melodiosa mi fece un’impressione profonda e mi fece versare calde lacrime per la mia sorte infelice. Tre volte egli dovette ripetermi i versi divini, e io lo ricompensai con tre bicchieri di acquavite che pagai volentieri con i pochi pfennige che costituivano tutto il mio avere.
Da quel momento non cessai di pregare Dio perché nella sua grazia mi accordasse la fortuna di imparare il greco. Ma sembrava che nella mia triste e umile situazione non si aprissero vie d’uscita, finché ne fui liberato come per miracolo.
Nel sollevare un barile troppo pesante mi produssi una lacerazione nel petto: sputavo sangue e non ero piú in grado di compiere il mio lavoro. Nella mia disperazione andai a piedi ad Amburgo, dove dapprima riuscii a ottenere un impiego in una drogheria sul mercato del pesce di Altona, con una paga annua di 180 marchi. Ma non potendo fare lavori pesanti, perché sputavo sangue e soffrivo molto al petto, poco dopo i miei principali mi considerarono inutile, e cosí perdetti il posto che avevo occupato appena per otto giorni.
Capii bene che non avrei piú potuto prestare servizi di quel genere e, costretto dalla necessità di guadagnarmi il pane quotidiano con un lavoro qualsiasi, anche il piú umile,
cercai di ottenere un posto a bordo di una nave; grazie alla raccomandazione del buon I. F. Wendt, un mediatore marittimo che era cresciuto insieme con la mia povera madre, riuscii a farmi assumere come mozzo di cabina a bordo del brigantino Dorothea; la nave era diretta a La Guayra in Venezuela. Ero sempre stato povero, ma mai cosí completamente privo di mezzi come proprio in quel momento: per potermi procurare una coperta di lana dovetti vendere il mio unico vestito.
Il 28 novembre 1841 lasciammo Amburgo con un buon vento; ma dopo poche ore il vento cambiò e dovemmo restare fermi per tre giorni interi sull’Elba, non lontano da Blankenese. Il vento favorevole tornò solo il 1° dicembre: passammo Cuxhaven ed entrammo in alto mare, ma eravamo appena arrivati all’altezza di Helgoland che il vento saltò di nuovo a occidente e restò sempre contrario fino al 12 dicembre. Non facevamo che bordeggiare, ma avanzando poco o niente, finché
la notte fra l’11 e il 12 dicembre, colpiti da una tremenda tempesta all’altezza dell’isola di Texel, facemmo naufragio sul banco chiamato «de Eilandsche Grond». Dopo infiniti pericoli, dopo essere stati trascinati qua e là per nove ore dalla furia del vento e delle onde, fummo salvati in nove su una minuscola scialuppa aperta. Ricorderò sempre, ringraziando profondamente Dio, il felice momento che la nostra barca fu scagliata dai marosi su un banco di sabbia non lontano dalla costa di Texel: finalmente tutto il pericolo era passato. Non sapevo su quale costa eravamo stati gettati, ma sapevo che ci trovavamo in un «paese straniero». Là, sul banco di sabbia, mi sembrava che una voce mi sussurrasse che
ormai l’onda era arrivata a toccare le mie vicende terrene e che dovevo approfittare della sua corrente. Lo stesso giorno questa lieta fede mi fu confermata: mentre il capitano e i miei compagni avevano perduto tutti i loro beni nel naufragio, la mia cassettina, contenente un po’ di camicie e di calze, il mio taccuino e qualche lettera di raccomandazione per La Guayra, procuratami dal signor Wendt, fu trovata che galleggiava intatta sulle onde e tratta in salvo. In seguito a questo caso singolare, per tutto il tempo che restai a Texel mi chiamarono col soprannome di «Giona».
A Texel i consoli Sonderdorp e Ram ci accolsero nel modo piú amichevole, ma quando essi mi proposero di rimandarmi ad Amburgo insieme col resto dell’equipaggio io rifiutai decisamente di tornare in Germania, dove ero stato cosí indicibilmente infelice e dichiarai loro che mi consideravo destinato a restare in Olanda, che intendevo recarmi ad Amsterdam per arruolarmi soldato: infatti ero del tutto privo di mezzi e non vedevo altra possibilità, almeno per il momento, per guadagnarmi da vivere. Cosí i consoli, dietro le mie preghiere insistenti, pagarono due gulden per il mio viaggio ad Amsterdam.
Ora il vento era passato tutto a sud e la piccola nave su cui ero stato imbarcato dovette restare un giorno a Enkhuyzen; ci occorsero cosí non meno di tre giorni per raggiungere la capitale olandese. Durante la traversata soffrii molto a causa del mio abbigliamento inadatto e del tutto insufficiente, e anche ad
Amsterdam la fortuna non voleva sorridermi. L’inverno era cominciato, io non avevo un vestito e soffrivo un freddo terribile.
Il mio proposito di fare il soldato non poté essere attuato rapidamente come avevo pensato, e i pochi denari che avevo raccolto in elemosina nell’isola di Texel e a Enkhuyzen furono presto inghiottiti, insieme con i due gulden che mi dette il signor Quack, console del Mecklemburgo ad Amsterdam, dalla locanda della signora Graalman, sulla Damskoy di Amsterdam, dove avevo stabilito il mio quartiere. Quando i miei scarsi mezzi furono del tutto esauriti mi finsi malato e fui quindi ricoverato all’ospedale.
Da questa situazione terribile mi liberò ancora una volta I. F. Wendt, il mediatore marittimo di Amburgo di cui ho già parlato, al quale avevo scritto da Texel per dargli notizia del nostro naufragio e anche per informarlo che avevo in animo di tentare la fortuna ad Amsterdam. Un caso fortunato aveva voluto che la mia lettera gli fosse consegnata proprio mentre egli sedeva a banchetto con un buon numero di amici. La notizia del nuovo infortunio che mi aveva colpito aveva suscitato la compassione generale, e una colletta da lui disposta immediatamente aveva dato la somma di 240 gulden che egli mi fece pervenire attraverso il console Quack. In pari tempo
egli mi raccomandò all’ottimo signor W. Hepner, console generale prussiano ad Amsterdam, che mi procurò subito un posto negli uffici di F. C. Quien. Il mio nuovo lavoro consisteva nel timbrare cambiali e incassarle in città, nel portare e ritirare lettere alla posta. Questa occupazione meccanica mi era molto gradita perché mi lasciava tempo sufficiente per pensare alla mia educazione trascurata.
Prima di tutto cercai di rendere leggibile la mia scrittura, e ci riuscii perfettamente prendendo venti lezioni dal famoso calligrafo Magnée di Bruxelles; poi, per migliorare la mia posizione,
mi dedicai a un alacre studio delle lingue moderne.
Il mio stipendio annuo ammontava a soli 800 franchi, metà dei quali spendevo per gli studi; con l’altra metà provvedevo, piuttosto stentatamente, a mantenermi. La mia abitazione, che mi costava 8 franchi al mese, era una miserabile soffitta priva di riscaldamento, dove d’inverno tremavo dal gelo e d’estate soffrivo per il calore rovente. Per prima cola zione mangiavo una farinata di segala, il pasto di mezzogiorno non mi costava mai piú di 16 pfennige. Ma niente sprona allo studio piú della miseria e la certezza di liberarsene col lavoro intenso.
Io avevo in piú il desiderio di mostrarmi degno di Minna, che suscitava e alimentava in me un coraggio invincibile.(Fine della 2a puntata)