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Heinrich Schliemann - La scoperta di Troia, testo integrale

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view post Posted on 8/9/2009, 12:09     +1   -1
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Pubblico a puntato la grande e celebre storia della scoperta di Troia scritta dallo stesso scopritore: Heinrich Schliemann.
Leggetela, è veramente bella. :)

Heinrich Schliemann
La scoperta di Troia
(1881)

(edizione Einaudi)

Infanzia, anni di studio e di viaggi

Se comincio con la storia della mia vita non sono mosso da vanità, ma dal desiderio di mettere in chiaro che tutto il lavoro degli anni successivi fu determinato dalle impressioni della mia primissima infanzia, e che anzi esse ne furono la conseguenza necessaria; si potrebbe dire che il piccone e la pala per gli scavi di Troia e delle tombe regali di Micene furono già forgiati e affilati nel piccolo villaggio tedesco dove ho passato otto anni della mia prima giovinezza. Cosí non mi sembra superfluo raccontare come sono entrato a poco a poco in possesso dei mezzi grazie ai quali nell’autunno della vita potei eseguire i grandi progetti che avevo tracciato quand’ero un povero fanciulletto.
Sono nato il 6 gennaio 1822 nella cittadina di Neubuckow, nel MecklemburgoSchwerin, dove mio padre, Ernst Schliemann, era predicatore protestante e donde egli partí nel 1823, quando fu chiamato con lo stesso ufficio alla parrocchia di Ankershagen, villaggio situato fra Waren e Penzlin nello stesso granducato. Qui vissi gli otto anni seguenti, e la mia naturale inclinazione verso tutte le cose misteriose e meravigliose divampò in una vera passione a causa dei prodigi che avvenivano in quel villaggio.
Si diceva che nel nostro giardino si aggirasse lo spirito del predecessore di mio padre, pastore von Russdorf; e subito dietro il giardino c’era un piccolo stagno, chiamato «Scodella d’argento», dal quale a mezzanotte emergeva il fantasma di una fanciulla con una scodella d’argento in mano. Inoltre il villaggio aveva un piccolo colle cinto da un fossato, una tomba risalente forse all’antica età pagana, una cosiddetta tomba del gigante in cui secondo la leggenda un antico cavaliere masnadiero aveva sepolto il figlio prediletto in una culla d’oro. Si diceva che immensi tesori fossero nascosti vicino alle rovine di un’antica torre rotonda nel giardino del grande proprietario del luogo; io ero cosí fermamente convinto della loro esistenza che quando sentivo mio padre lamentarsi delle sue difficoltà finanziarie gli chiedevo meravigliato come mai non si voleva arricchire scavando la scodella d’argento o la culla d’oro.
Ad Ankershagen c’era anche un castello medievale con passaggi segreti nelle mura larghe 6 piedi e un cammino sotterraneo lungo un buon miglio tedesco, dicevano, che portava sotto il profondo lago di Speck; era popolato da terribili fantasmi, e tutti gli abitanti del villaggio parlavano tremando di questi orrori. Secondo un’antica leggenda un tempo il castello era stato abitato da un nobile masnadiero chiamato Henning von Holstein e soprannominato dal popolo «Henning Bradenkirl» che era temuto in tutta la regione perché era solito rubare e saccheggiare come poteva. Indispettito perché il duca di Mecklemburgo proteggeva contro le sue violenze, con un proprio salvacondotto, molti mercanti che dovevano passare per il suo castello, decise di vendicarsi e con finta umiltà invitò il duca presso di sé. Il duca accettò l’invito e il giorno fissato si mise in cammino con un grande seguito. Ma il vaccaro del cavaliere, avendo saputo che il suo signore voleva assassinare l’ospite, si nascose nella boscaglia lungo la strada, dietro un colle distante circa un quarto di miglio dalla nostra casa, aspettò il duca e gli rivelò il piano delittuoso di Henning. Per il momento il duca tornò indietro. Da questo fatto il colle avrebbe preso il nome attuale di «Monte della guardia». Ma quando il cavaliere scoprí che il vaccaro aveva mandato a monte i suoi piani, lo fece arrostire a fuoco lento in una grande caldaia di ferro, e mentre l’infelice si torceva negli spasimi della morte, continua la leggenda, gli dette crudelmente un calcio col piede sinistro. Poco dopo il duca sopraggiunse con un reggimento di soldati, assediò e conquistò il castello; quando il cavaliere Henning vide che non c’era piú via di scampo, chiuse tutti i suoi tesori in una grande cassa e la seppellí nel giardino vicino alla torre rotonda di cui ancor oggi si vedono le rovine. Poi si uccise. Una lunga fila di pietre piatte nel nostro cimitero indicava, a quanto si diceva, la tomba del malfattore; da essa per secoli era sempre tornata a spuntare la sua gamba sinistra, coperta da una calza di seta nera. Il sagrestano Prange e il becchino Wöllert giuravano solennemente che da ragazzi avevano tagliato loro stessi la gamba e che si erano serviti dell’osso per far cadere le pere dagli alberi, ma all’inizio del secolo la gamba aveva cessato all’improvviso di rispuntare. Naturalmente nella mia semplicità infantile io credevo a tutto questo e spesso pregavo anche mio padre di aprire la tomba o magari di permettere a me di farlo, per vedere una buona volta come mai la gamba non voleva crescere piú.
Un’impressione straordinariamente profonda faceva sul mio animo sensibile anche un rilievo di terracotta, su un muro posteriore del castello, raffigurante un uomo che nella credenza popolare era Henning Bradenkirl. Nessun colore vi restava attaccato, e si diceva che esso era coperto del sangue del vaccaro che non poteva essere cancellato. Un camino murato nella sala era indicato come il luogo in cui il vaccaro era stato arrostito nella caldaia di ferro. Nonostante tutti i tentativi di far scomparire le commessure di questo terribile camino, esse erano sempre rimaste visibili; e anche questo era considerato un segno celeste, indicante che l’azione diabolica non può essere dimenticata. A quel tempo prestavo fede incondizionata anche a un’altra leggenda, secondo cui il signore von Gundlach, proprietario del vicino fondo di Rumshagen, aveva scavato un colle vicino alla chiesa del villaggio e vi aveva trovato grandi barili contenenti una fortissima birra degli antichi romani.
Pur non essendo né un filologo né un archeologo, mio padre s’interessava con passione della storia antica; spesso mi raccontava con caldo entusiasmo della tragica scomparsa di Ercolano e di Pompei e sembrava considerare fortunatissimo chi aveva i mezzi e il tempo di visitare gli scavi di quelle città. Spesso mi raccontava ammirato anche le gesta degli eroi omerici e i fatti della guerra di Troia, e trovava sempre in me un fervido paladino della causa troiana. Seppi da lui con dispiacere che la distruzione di Troia era stata cosí totale che la città era scomparsa dalla terra senza lasciar traccia. Ma quando, per il Natale del 1829 (avevo quasi otto anni), egli mi regalò la Storia universale per i ragazzi del dottor Georg Ludwig Jerrer, e trovai nel libro una figura di Troia in fiamme, con le sue mura immense e la Porta Scea, Enea fuggente col padre Anchise sulle spalle e il piccolo Ascanio per mano, esclamai pieno di gioia: «Papà, ti sei sbagliato! Jerrer deve avere visto Troia, altrimenti non avrebbe potuto raffigurarla qui». «Figlio mio, – rispose, – è soltanto un quadro fantastico ». Ma quando gli chiesi se l’antica Troia aveva veramente mura cosí grosse, come erano mostrate nella figura, rispose di sí. «Papà, – dissi allora, – se mura simili sono esistite, non possono essere state distrutte del tutto, ma saranno certamente nascoste dalla polvere e dai detriti dei secoli». Egli era di parere contrario, ma io restai fermo nella mia idea e alla fine concordammo che un giorno io avrei scavato Troia.
Chi ha qualche cosa nel cuore, o un dolore o una gioia, deve parlare, e soprattutto un fanciullo; accadde cosí che ben presto ai miei compagni di gioco non parlavo che di Troia e delle cose misteriose e meravigliose di cui il nostro villaggio era pieno. Tra loro mi canzonavano, tranne due bambine, Luise e Minna Meincke, figlie di un coltivatore di Zahren, un villaggio distante circa un quarto di miglio da Ankershagen; la prima aveva sei anni, la seconda la mia età. Esse non pensavano a canzonarmi, al contrario: ascoltavano sempre con intensa attenzione i miei racconti meravigliosi. Soprattutto Minna mostrava per me la massima comprensione e s’infervorava volenterosamente in tutti i miei grandiosi piani per l’avvenire. Cosí crebbe fra noi una calda simpatia e dopo poco nella nostra ingenuità infantile ci promettemmo eterno amore e fedeltà.
Nell’inverno 182930 un comune corso di ballo ci riuniva a giorni alterni in casa della mia piccola fidanzata, da noi in parrocchia o nell’antico castello dei fantasmi, che allora era abitato dall’affittuario Heldt e dove noi osservavamo con vivo interesse il ritratto insanguinato di Henning, le fatali commessure del terribile camino, i corridoi segreti nelle mura e l’accesso al cammino sotterraneo. Quando la lezione di ballo si svolgeva a casa nostra andavamo al cimitero, davanti alla nostra porta, per vedere se il piede di Henning era spuntato dalla terra, oppure ammiravamo rispettosamente i vecchi libri della chiesa, scritti da Johann Christian e Gottfriedrich Heinrich von Schröder (padre e figlio), che avevano preceduto nella carica mio padre negli anni 170999: ci affascinavano specialmente i registri delle nascite, dei matrimoni e delle morti.
A volte facevamo anche visita alla figlia, allora ottantaquattrenne, dell’ultimo pastore von Schröder, che abitava vicino a casa nostra, per interrogarla sul passato del villaggio o per guardare i ritratti della sua famiglia; piú di tutti ci attirava quello della madre, Olgartha Christine von Schröder, defunta nel 1795, sia perché ci sembrava un capolavoro artistico, sia anche perché aveva una certa somiglianza con Minna. Non di rado facevamo visita anche a Wöllert, il sarto del villaggio, che aveva un occhio solo e una gamba sola e per questo tutti lo chiamavano «Peter Hüppert». Era del tutto privo di istruzione, ma aveva una memoria cosí prodigiosa che dopo aver ascoltato una predica di mio padre sapeva ripeterla tutta parola per parola. Quest’uomo, che, se gli fosse stata aperta la strada della scuola e dell’università, senza dubbio sarebbe diventato un notevole studioso, era pieno di umorismo ed eccitava la nostra sete di sapere con la sua riserva inesauribile di aneddoti, che sapeva raccontare con mirabile talento oratorio. Ne riferirò uno solo. Egli dunque ci raccontò che, avendo sempre voluto sapere dove vanno le cicogne d’inverno, una volta, quando viveva ancora il predecessore di mio padre, il pastore von Russdorf, aveva catturato una cicogna che era solita nidificare sul nostro granaio e le aveva legato a una zampa un pezzo di pergamena, su cui il sagrestano Prange per sua richiesta aveva scritto che lui, il sagrestano, e Wöllert, il sarto del villaggio di Ankershagen nel MecklemburgoSchwerin, pregavano cordialmente il proprietario della casa su cui la cicogna faceva il nido d’inverno di comunicare loro il nome del suo paese. La primavera seguente, quando la cicogna tornò, si trovò legato alla zampa dell’uccello un altro pezzo di pergamena su cui era scritta, in cattivi versi tedeschi, la seguente risposta:

Lo SchwerinMecklemburgo non ci è noto,
Il paese dove l’uccello si è trovato
Terra di San Giovanni vien chiamato.

Naturalmente noi credemmo a tutto ciò e avremmo dato volentieri anni della nostra vita solo per sapere dove si trovasse la misteriosa Terra di San Giovanni.
Questi e simili aneddoti, anche se proprio non arricchivano le nostre conoscenze geografiche, suscitavano almeno in noi il desiderio d’imparare la geografia e accrescevano la nostra passione per tutti i misteri. Dalle lezioni di ballo né Minna né io traemmo alcun profitto; noi due non imparammo nulla, o perché ci mancava la disposizione naturale per quest’arte, o perché eravamo troppo impegnati nei nostri studi archeologici e nei progetti per il futuro. Era già stabilito fra noi che appena adulti ci saremmo sposati, avremmo indagato su tutti i segreti di Ankershagen, la culla d’oro, la scodella d’argento, gli immensi tesori di Henning e la sua tomba, e infine avremmo scavato la città di Troia; non riuscivamo a immaginare niente di piú bello che impiegare tutta la vita alla ricerca dei resti del passato. Sia lode a Dio che in tutti gli alterni casi della mia movimentata carriera la solida fede nell’esistenza di Troia non mi ha mai abbandonato!
Ma ero destinato a realizzare i nostri progetti infantili di cinquant’anni fa soltanto nell’autunno della mia vita e senza Minna: lontano, molto lontano da lei.

(Fine della 1a puntata)

 
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chiara1C
view post Posted on 12/9/2009, 11:11     +1   -1




E' veramente molto bella! dove posso trovare le altre puntate????
 
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La Deca
view post Posted on 12/9/2009, 12:15     +1   -1




hai ragione Chiara: è stupenda!
Comunque tranquilla perchè il bello dii una storia a puntate è aspettarne il seguito magari fantasticando un po' al riguardo!
 
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view post Posted on 12/9/2009, 16:51     +1   -1
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Sono contenta che vi piaccia. :) :)
Eccone un'altra puntata (poi, se lo trovo tutto, ve lo posto):

Mio padre non sapeva il greco, ma era forte in latino e approfittava di ogni momento libero per insegnarmelo. Avevo appena nove anni quando la mia cara madre morí; fu una perdita irreparabile e certo la piú grande disgrazia che potesse colpire me e i miei sei fratelli e sorelle.
La morte di mia madre fu accompagnata da un altro grave caso disgraziato in seguito al quale tutti i conoscenti ci voltarono improvvisamente le spalle e interruppero i rapporti con noi. Degli altri non mi rammaricai troppo, ma l’infelicità di non vedere piú la famiglia Meincke, di essere del tutto allontanato da Minna, di non doverla piú rivedere, fu un dolore mille volte piú grave della morte di mia madre, che finii col dimenticare tanto ero travolto dall’afflizione per la perdita di Minna. Per ore e ore, inondato di lacrime, stavo ogni giorno da solo davanti al ritratto di Olgartha von Schröder e pensavo pieno di tristezza ai giorni felici che avevo vissuto in compagnia di Minna. Tutto l’avvenire mi appariva cupo e tenebroso; per un certo tempo tutte le meraviglie misteriose di Ankershagen e persino Troia perdettero per me tutto il loro fascino.
Mio padre, al quale non era sfuggita la mia profonda prostrazione, mi mandò per due anni da suo fratello, il pastore Friedrich Schliemann, che curava la parrocchia del villaggio di Kalkhorst nel Mecklemburgo. Qui mi toccò per un anno la fortuna di avere per insegnante il candidato Carl Andress di Neustrelitz; sotto la guida di questo eccellente filologo feci progressi cosí notevoli che a Natale del 1832 potei già offrire in dono a mio padre un componimento latino, sia pure poco corretto, sui fatti principali della guerra troiana e sulle avventure di Odisseo e di Agamennone.
All’età di undici anni entrai nel ginnasio di Neustrelitz, dove fui ammesso alla terza. Ma proprio in quel tempo la mia famiglia fu colpita da una gravissima disgrazia, e siccome temevo che i mezzi di mio padre non sarebbero bastati per mantenermi parecchi anni al ginnasio e poi all’università, lasciai il ginnasio, dopo soli tre mesi, per passare alla scuola professionale, dove fui subito ammesso alla seconda classe.
Promosso in prima a Pasqua del 1835, lasciai l’istituto nella primavera del 1836, a quattordici anni, per prendere servizio come garzone nella piccola drogheria di Ernst Ludwig Holtz, nella cittadina di Fürstenberg nel MecklemburgoStrelitz.
Qualche giorno prima di partire da Neustrelitz, il venerdí santo del 1836, a casa del musicista di corte C. E. Laue incontrai per caso Minna Meincke, che non avevo piú visto da oltre cinque anni. Non dimenticherò mai questo nostro incontro, che doveva essere l’ultimo.
Essa aveva quattordici anni ed era molto cresciuta dall’ultima volta che l’avevo vista. Portava un semplice vestito nero, e proprio la semplicità del suo abbigliamento sembrava rendere piú affascinante la sua bellezza. Quando ci guardammo negli occhi scoppiammo in lacrime e ci gettammo senza parole l’uno nelle braccia dell’altra. Cercammo piú volte di parlarci, ma eravamo troppo commossi: non riuscimmo a dire una parola. Subito dopo entrarono nella stanza i genitori di Minna e dovemmo separarci; per molto tempo non riuscii a riprendermi dalla commozione. Ora ero sicuro che Minna mi amava ancora, e questo pensiero infiammava la mia ambizione: da quel momento sentii in me un’energia sconfinata e la ferma fiducia che lavorando con alacrità infaticabile mi sarei fatto strada nel mondo e mi sarei dimostrato degno di Minna. Pregavo soltanto Dio che lei non si sposasse prima che io mi fossi conquistato una posizione indipendente.
Per cinque anni e mezzo servii nella piccola drogheria di Fürstenberg: il primo anno col signor Holtz e poi col suo successore, l’ottimo signor Theodor Hückstädt. Nel mio lavoro dovevo vendere al dettaglio aringhe, burro, acquavite di patate, latte, sale, caffè, zucchero, olio, candele ecc., macinare le patate per la distilleria, spazzare la bottega e compiere altri servizi simili.
Il nostro negozio era cosí insignificante che tutte le nostre vendite di un anno non ammontavano a 3000 talleri; ci sembrava una fortuna eccezionale se nel corso di una giornata vendevamo merci per 10 o 15 talleri. Naturalmente qui venivo a contatto con i ceti piú bassi della società. Dalle cinque del mattino fino alle undici di sera ero tanto occupato che non mi restava un minuto libero per studiare. Per di piú dimenticavo rapidamente il poco che avevo imparato da bambino, ma non perdevo l’amore per la scienza – non lo perdetti mai –, e cosí non potrò dimenticare finché vivo quella sera che entrò nel negozio un mugnaio ubriaco, Hermann Niederhöffer.
Era figlio di un pastore protestante di Röbel (Mecklemburgo) e aveva quasi compiuto gli studi al ginnasio di Neuruppin quando fu espulso dalla scuola per cattiva condotta. Il padre lo affidò come apprendista al mugnaio Dettmann di Güstrow; restato qui per due anni, egli andava poi girando come garzone mugnaio. Scontento della sua sorte, purtroppo il giovane si era dato presto al bere, ma non aveva dimenticato il suo Omero; e quella sera ci recitò non meno di cento versi di questo poeta, scandendoli con pieno pathos. Sebbene non capissi una parola, quella lingua melodiosa mi fece un’impressione profonda e mi fece versare calde lacrime per la mia sorte infelice. Tre volte egli dovette ripetermi i versi divini, e io lo ricompensai con tre bicchieri di acquavite che pagai volentieri con i pochi pfennige che costituivano tutto il mio avere. Da quel momento non cessai di pregare Dio perché nella sua grazia mi accordasse la fortuna di imparare il greco.
Ma sembrava che nella mia triste e umile situazione non si aprissero vie d’uscita, finché ne fui liberato come per miracolo. Nel sollevare un barile troppo pesante mi produssi una lacerazione nel petto: sputavo sangue e non ero piú in grado di compiere il mio lavoro. Nella mia disperazione andai a piedi ad Amburgo, dove dapprima riuscii a ottenere un impiego in una drogheria sul mercato del pesce di Altona, con una paga annua di 180 marchi. Ma non potendo fare lavori pesanti, perché sputavo sangue e soffrivo molto al petto, poco dopo i miei principali mi considerarono inutile, e cosí perdetti il posto che avevo occupato appena per otto giorni.
Capii bene che non avrei piú potuto prestare servizi di quel genere e, costretto dalla necessità di guadagnarmi il pane quotidiano con un lavoro qualsiasi, anche il piú umile, cercai di ottenere un posto a bordo di una nave; grazie alla raccomandazione del buon I. F. Wendt, un mediatore marittimo che era cresciuto insieme con la mia povera madre, riuscii a farmi assumere come mozzo di cabina a bordo del brigantino Dorothea; la nave era diretta a La Guayra in Venezuela. Ero sempre stato povero, ma mai cosí completamente privo di mezzi come proprio in quel momento: per potermi procurare una coperta di lana dovetti vendere il mio unico vestito.
Il 28 novembre 1841 lasciammo Amburgo con un buon vento; ma dopo poche ore il vento cambiò e dovemmo restare fermi per tre giorni interi sull’Elba, non lontano da Blankenese. Il vento favorevole tornò solo il 1° dicembre: passammo Cuxhaven ed entrammo in alto mare, ma eravamo appena arrivati all’altezza di Helgoland che il vento saltò di nuovo a occidente e restò sempre contrario fino al 12 dicembre. Non facevamo che bordeggiare, ma avanzando poco o niente, finché la notte fra l’11 e il 12 dicembre, colpiti da una tremenda tempesta all’altezza dell’isola di Texel, facemmo naufragio sul banco chiamato «de Eilandsche Grond». Dopo infiniti pericoli, dopo essere stati trascinati qua e là per nove ore dalla furia del vento e delle onde, fummo salvati in nove su una minuscola scialuppa aperta. Ricorderò sempre, ringraziando profondamente Dio, il felice momento che la nostra barca fu scagliata dai marosi su un banco di sabbia non lontano dalla costa di Texel: finalmente tutto il pericolo era passato. Non sapevo su quale costa eravamo stati gettati, ma sapevo che ci trovavamo in un «paese straniero». Là, sul banco di sabbia, mi sembrava che una voce mi sussurrasse che ormai l’onda era arrivata a toccare le mie vicende terrene e che dovevo approfittare della sua corrente. Lo stesso giorno questa lieta fede mi fu confermata: mentre il capitano e i miei compagni avevano perduto tutti i loro beni nel naufragio, la mia cassettina, contenente un po’ di camicie e di calze, il mio taccuino e qualche lettera di raccomandazione per La Guayra, procuratami dal signor Wendt, fu trovata che galleggiava intatta sulle onde e tratta in salvo. In seguito a questo caso singolare, per tutto il tempo che restai a Texel mi chiamarono col soprannome di «Giona».
A Texel i consoli Sonderdorp e Ram ci accolsero nel modo piú amichevole, ma quando essi mi proposero di rimandarmi ad Amburgo insieme col resto dell’equipaggio io rifiutai decisamente di tornare in Germania, dove ero stato cosí indicibilmente infelice e dichiarai loro che mi consideravo destinato a restare in Olanda, che intendevo recarmi ad Amsterdam per arruolarmi soldato: infatti ero del tutto privo di mezzi e non vedevo altra possibilità, almeno per il momento, per guadagnarmi da vivere. Cosí i consoli, dietro le mie preghiere insistenti, pagarono due gulden per il mio viaggio ad Amsterdam.
Ora il vento era passato tutto a sud e la piccola nave su cui ero stato imbarcato dovette restare un giorno a Enkhuyzen; ci occorsero cosí non meno di tre giorni per raggiungere la capitale olandese. Durante la traversata soffrii molto a causa del mio abbigliamento inadatto e del tutto insufficiente, e anche ad Amsterdam la fortuna non voleva sorridermi. L’inverno era cominciato, io non avevo un vestito e soffrivo un freddo terribile. Il mio proposito di fare il soldato non poté essere attuato rapidamente come avevo pensato, e i pochi denari che avevo raccolto in elemosina nell’isola di Texel e a Enkhuyzen furono presto inghiottiti, insieme con i due gulden che mi dette il signor Quack, console del Mecklemburgo ad Amsterdam, dalla locanda della signora Graalman, sulla Damskoy di Amsterdam, dove avevo stabilito il mio quartiere. Quando i miei scarsi mezzi furono del tutto esauriti mi finsi malato e fui quindi ricoverato all’ospedale.
Da questa situazione terribile mi liberò ancora una volta I. F. Wendt, il mediatore marittimo di Amburgo di cui ho già parlato, al quale avevo scritto da Texel per dargli notizia del nostro naufragio e anche per informarlo che avevo in animo di tentare la fortuna ad Amsterdam. Un caso fortunato aveva voluto che la mia lettera gli fosse consegnata proprio mentre egli sedeva a banchetto con un buon numero di amici. La notizia del nuovo infortunio che mi aveva colpito aveva suscitato la compassione generale, e una colletta da lui disposta immediatamente aveva dato la somma di 240 gulden che egli mi fece pervenire attraverso il console Quack. In pari tempo egli mi raccomandò all’ottimo signor W. Hepner, console generale prussiano ad Amsterdam, che mi procurò subito un posto negli uffici di F. C. Quien. Il mio nuovo lavoro consisteva nel timbrare cambiali e incassarle in città, nel portare e ritirare lettere alla posta. Questa occupazione meccanica mi era molto gradita perché mi lasciava tempo sufficiente per pensare alla mia educazione trascurata.
Prima di tutto cercai di rendere leggibile la mia scrittura, e ci riuscii perfettamente prendendo venti lezioni dal famoso calligrafo Magnée di Bruxelles; poi, per migliorare la mia posizione, mi dedicai a un alacre studio delle lingue moderne.
Il mio stipendio annuo ammontava a soli 800 franchi, metà dei quali spendevo per gli studi; con l’altra metà provvedevo, piuttosto stentatamente, a mantenermi. La mia abitazione, che mi costava 8 franchi al mese, era una miserabile soffitta priva di riscaldamento, dove d’inverno tremavo dal gelo e d’estate soffrivo per il calore rovente. Per prima cola zione mangiavo una farinata di segala, il pasto di mezzogiorno non mi costava mai piú di 16 pfennige. Ma niente sprona allo studio piú della miseria e la certezza di liberarsene col lavoro intenso. Io avevo in piú il desiderio di mostrarmi degno di Minna, che suscitava e alimentava in me un coraggio invincibile.

(Fine della 2a puntata)

 
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view post Posted on 27/9/2009, 11:11     +1   -1
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Magari continuerò a mettere in onda le singole puntate (se avrò tempo), ma intanto ho il piacere di presentarvi...

La scoperta di Troia in versione integrale! :) :)

Se è troppo pesante per aprirlo, scaricatevi il file cliccando con il tasto destro ("salva oggetto con nome") e leggetevelo con calma off line.

Edited by Arianna... - 27/9/2009, 12:33
 
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La Deca
view post Posted on 27/9/2009, 16:37     +1   -1




Grazie Arianna! E' bellissimo sapere che chi crede nei propri sogni alla fine riesce a vederli avverati!
 
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view post Posted on 27/9/2009, 18:00     +1   -1
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Prego. :)
Sì, è davvero bellissimo; anche se non a tutti va altrettanto bene... :unsure:

Certo è che quella di Schliemann era vera e propria fede, come lui stesso ammette: fede incrollabile.
 
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La Deca
view post Posted on 27/9/2009, 19:17     +1   -1




è un personaggio che mi affascina moltissimo! insomma non è per nulla facile perseguire un sogno anche a costo di mettersi contro il mondo... lo ammiro tantissimo!
 
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7 replies since 8/9/2009, 12:09   2131 views
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